Simona Bartolena

Le ali di Psiche

IT

Piccoli corpi in ginocchio plasmati nel ferro. Le schiene piegate, i polsi
ammanettati dietro alla schiena. Un’enorme gabbia li imprigiona, accentuando
quel senso di insostenibile prevaricazione che già da sole quelle piccole figure
suggeriscono. Le loro tute arancioni lasciano pochi dubbi: il riferimento a
Guantanamo è immediato, esplicito… Ma il messaggio, che risuona forte e chiaro,
supera le sbarre delle celle della prigione statunitense, per raccontare
l’inaudita violenza di cui l’uomo è capace. Ricordo bene la prima volta che ho
visto questo lavoro di Francesco Diluca; non mi capita poi così spesso di
restare colpita, quasi turbata, da un’opera d’arte, ma quei piccoli uomini in
lamiera avevano una forza espressiva fuori dal comune e, soprattutto, erano in
grado di esprimere un concetto forte senza scivolare nella banalità o, ancor
peggio, in un facile patetismo. Mi sono subito data da fare per approfondire la
conoscenza della ricerca di questo giovane scultore. Le mie aspettative non sono
state deluse: addentrandomi nella ricerca di Francesco Diluca ho scoperto un
mondo abitato da presenze tanto reali quanto simboliche, vuote corazze di ferro
che disegnano corpi di disarmante attualità. Il ritratto di un’umanità
prigioniera dei suoi stessi riti: giovani incappucciati nelle loro felpe alla
moda e membri del Ku Klux Klan incappucciati nelle loro sinistre uniformi,
eleganti signore in tacchi a spillo e Samurai coperti di sangue…: scorze vuote,
spettrali e inconsistenti come apparizioni eppure presenti e tangibili, come
ricordi, come proiezioni, eidola che non vogliono svanire. Il concetto di
presenza/assenza è, a mio avviso, il nodo cruciale della ricerca di Francesco
Diluca: corpi che sembrano comparire dal nulla – vuoto che si fa materia –
evocando, come Vanitas contemporanee, lo spettro del tempo, le chimere
dell’effimero. Ha ragione Diluca quando, in un’intervista video, sostiene che il
bianco è il colore del tempo. Quello strato di vernice bianca che ricopre le sue
figure le eterna, le imprigiona in uno spazio-tempo indefinito: che non è
l’ieri, né il domani, ma è l’istante presente, il “sempre”, un meraviglioso
senso dell’assoluto reso visibile dalla materia. Una percezione temporale,
questa, che riecheggia anche nelle sue opere disegnate su lamiera, nelle città
graffiate nella ruggine, incise su un foglio di metallo stropicciato come carta
straccia, come vecchi dagherrotipi sbiaditi dal tempo: di nuovo ricordi,
visioni, assenze che riprendono forma, creature del pensiero che ritrovano
corpo. Anche in questi dipinti su lamiera emerge, peraltro, l’anima di scultore
di Francesco Diluca, che trova la propria cifra stilistica nella sua materia
d’elezione: il ferro, un metallo povero, antico, forte, che sotto le mani
dell’artista sa farsi leggero, espressivo, persino elegante.
È ancora dal ferro che nascono le sculture della serie Skin, ma questa volta non
è la lamiera ma la limatura, le scorie metalliche, il prodotto di scarto della
saldatura che Diluca ha raccolto nel corso degli anni, a farsi materia ideale.
Ora non si tratta più di mettere in scena l’umanità in tutta la sua banalità
quotidiana o di denunciarne i potenziali orrori: ora si cerca l’essenza stessa
dell’uomo, abbandonando proprio quell’involucro vuoto che era stato protagonista
delle opere precedenti. Da un’incantevole metamorfosi – che avviene qui e ora,
davanti ai nostri occhi – prendono vita (o meglio: riprendono vita, in un
processo di ideale resurrezione) figure antropomorfe, che paiono composte di
polvere… o forse, a pensarci, la polvere è l’elemento che rende visibili ai
nostri occhi le loro presenze di puro spirito, come il pulviscolo sembra rendere
tangibile un raggio di sole che filtra da una finestra.
Dalle scorie di ferro spuntano rami, spuntano fiori, spunta la vita… e spuntano
farfalle. Prima una, timidamente appoggiata sulla scura e ruvida superficie
ferrosa, poi un’altra, infine centinaia. Ora sono loro a comporre il corpo. Sono
presenze bianche che volano su superfici nere, in uno straordinario gioco di
contrasti, in un dialogo serrato e indispensabile tra luce e tenebra. Di nuovo
l’effimero, di nuovo il vuoto e il silenzio del battito delle loro impalpabili
ali; di nuovo l’assenza che si fa presenza, il trascendente che si rende
visibile. Ma questa volta il concetto è sublimato in forma poetica, in cerca –
per usare le parole dell’artista – di una “condizione umana più sognata, più
pura”. La farfalla, con la sua breve vita e la sua splendida leggerezza, ritrova
così l’antico significato del suo nome. Psiche: l’anima, il soffio vitale, la
ψυχὴ platoniana che “dirige ogni cosa”, il coraggio e la paura, l’odio e
l’amore, la separazione e l’unione, il bianco e il nero.


 

EN

Small bodies kneeling, shaped in iron. Their backs bent, wrists shackled behind their backs. An enormous cage imprisons them, accentuating that sense of unbearable oppression that those small figures alone suggest. Their orange jumpsuits leave little doubt: the reference to Guantanamo is immediate, explicit… But the message, which resonates loud and clear, goes beyond the bars of the American prison, to recount the unheard-of violence that humanity is capable of. I remember well the first time I saw this work by Francesco Diluca; it doesn’t often happen that I am so struck, almost disturbed, by a piece of art, but those small metal men had an extraordinary expressive force and, above all, they were able to convey a strong concept without slipping into banality or, even worse, easy pathos. I immediately set out to deepen my understanding of this young sculptor’s work. My expectations were not disappointed: delving into Francesco Diluca’s research, I discovered a world inhabited by presences as real as they are symbolic, empty iron shells that outline bodies of disarming contemporaneity. The portrait of a humanity imprisoned by its own rites: young people in trendy hoodies and Ku Klux Klan members in their sinister uniforms, elegant ladies in high heels and Samurai covered in blood…: empty, spectral, insubstantial shells like apparitions yet present and tangible, like memories, like projections, eidola that refuse to vanish. The concept of presence/absence is, in my opinion, the crucial point of Francesco Diluca’s research: bodies that seem to appear out of nothing—void becoming matter—evoking, like contemporary Vanitas, the specter of time, the chimeras of the ephemeral. Diluca is right when, in a video interview, he says that white is the color of time. That layer of white paint that covers his figures eternalizes them, trapping them in an undefined space-time: which is neither yesterday nor tomorrow, but the present moment, the “always,” a marvelous sense of the absolute made visible by matter. This temporal perception also echoes in his works drawn on metal sheets, in cities scratched in rust, etched on a crumpled sheet of metal like old, faded daguerreotypes: once again memories, visions, absences taking shape, creatures of thought finding form. Even in these painted metal sheets, Francesco Diluca’s sculptor soul emerges, finding its stylistic hallmark in its chosen material: iron, a poor, ancient, strong metal, which under the artist’s hands can become light, expressive, even elegant. It is still from iron that the sculptures in the Skin series are born, but this time it is not the sheet metal but the filings, the metal shavings, the byproduct of welding that Diluca has collected over the years, that becomes the ideal material. Now it is no longer about staging humanity in all its banal everydayness or denouncing its potential horrors: now it seeks the very essence of man, abandoning precisely that empty shell that was the protagonist of previous works. From a marvelous metamorphosis—occurring here and now, before our eyes—anthropomorphic figures come to life (or rather: come back to life, in a process of ideal resurrection), seemingly composed of dust… or perhaps, upon reflection, dust is the element that makes their pure spirit presence visible to our eyes, just as dust seems to make a sunbeam filtering through a window tangible. From the iron debris sprout branches, flowers, life… and butterflies. First one, timidly resting on the dark, rough iron surface, then another, and finally hundreds. Now they compose the body. They are white presences flying over black surfaces, in an extraordinary play of contrasts, in a tight and indispensable dialogue between light and darkness. Again the ephemeral, again the void and silence of the beat of their insubstantial wings; again the absence becoming presence, the transcendent becoming visible. But this time the concept is sublimated into a poetic form, in search—using the artist’s words—of a “more dreamed, purer human condition.” The butterfly, with its short life and splendid lightness, thus regains the ancient meaning of its name. Psyche: the soul, the vital breath, the Platonic ψυχὴ that “directs everything,” courage and fear, hatred and love, separation and union, white and black.